Ipazia, il coraggio della filosofia di Luciano Canfora
La sua uccisione e quella di Socrate frutto della stessa infamia Tesori Al centro di tutta la vicenda ci sono i volumi conservati nella Biblioteca di Alessandria, piena di tesori della cultura antica
di Luciano Canfora
La vicenda di Ipazia, scienziata tra le maggiori della tarda antichità, massacrata ad Alessandria su istigazione del vescovo Cirillo (poi santo e dottore della Chiesa) nel marzo del 415 d.C. divide ancora. Incombe come ineludibile testimonianza del modo in cui il cristianesimo si impadronì dell’ impero romano. Nell’ autorevole Dizionario ecclesiastico diretto da Angelo Mercati e Augusto Pelzer, due pilastri della dottrina vaticana, si legge ancora che Ipazia «fu uccisa in una dimostrazione popolare perché avversa al cristianesimo», si precisa non senza improntitudine che il vescovo Cirillo fu estraneo alla cosa, e si squalificano gli storici antichi che lo inchiodano, tra cui lo storico cristiano Socrate scolastico (circa 380-440 d.C.), con l’ argomento che sarebbe vissuto «un secolo più tardi» laddove fu palesemente coevo dei fatti! Se tali dotti si abbassano alla più grossolana delle falsificazioni, ciò significa che quel crimine – con tutto il clima di intolleranza e di folle esaltazione dell’ ignoranza, creato dai cristiani padroni ormai della più grande metropoli del Mediterraneo – brucia ancora.
Un’ altra fonte contemporanea, su cui gli storici clericali sorvolano, Eunapio di Sardi, così descrive le squadracce di monaci ignoranti, i cosiddetti «parabolani», che torturarono e massacrarono Ipazia dopo averla, da bravi stupratori, denudata: «Monaci li hanno chiamati, ma non erano neppure uomini se non in apparenza, poiché conducevano vita da porci e apertamente compivano e assecondavano crimini innumerevoli e innominabili». Il determinismo storiografico filocristiano che ha cercato di minimizzare «incidenti» del genere come scotto da pagarsi al maestoso incedere progressivo della storia (di cui il cristianesimo sarebbe protagonista positivo) è ormai al capolinea. Ormai per fortuna la storiografia si riappropria del diritto di riaprire tutte le questioni sopite e relegate ai margini come «prezzi» dolorosi ma inevitabili. Il film di Amenábar Agora, che ricostruisce con filologica e ammirevole perizia l’ intera vicenda della vita e della morte di Ipazia di Alessandria, ha innanzi tutto il merito di restituire alla più ampia fruizione quella vicenda così rilevante e ancora oggi così traumatica. Incontra e incontrerà censure, ma questo dimostra soltanto quanto sia stato giusto e necessario concepirlo e produrlo. Esso ha inoltre il merito di porre al centro della vicenda i libri, cioè la biblioteca del Serapeo piena di tesori della cultura antica e perciò invisa ai cristiani e da loro annientata. Le scene della distruzione della biblioteca sono di ottima fattura e di esattezza impeccabile.
La battaglia intorno ai libri, nella quale si erano illustrate le bande al servizio di Teofilo, zio e predecessore nonché mentore di Cirillo, non ha nulla da invidiare alle gesta delle orde di Pol Pot. Un altro merito della ricostruzione storica contenuta in questo film è di mostrare l’ asservimento progressivo del potere politico a quello della Chiesa e dei vescovi, in specie dei più violenti e oscurantisti. In tempi di fondamentalismi che si affrontano, in pieno XXI secolo, nel nome di contrapposti repugnanti pregiudizi, questo monumento a Ipazia è un ammonimento per tutti. Quel che ci affascina è che, nonostante tutto, la notizia di lei e della sua opera sopravvisse. Cosa c’ è di più sorprendente e di più ammirevole che ritrovare dentro una enciclopedia dell’ XI secolo (Suidas) una galleria di ritratti entusiastici e commossi di filosofi neoplatonici (e pagani) come Ipazia e Olimpio? La fonte in quel caso è il neoplatonico Damascio. Contro la scuola neoplatonica di Atene si accanì Giustiniano (529 d.C.) che cacciò quei filosofi dall’ impero. Alcuni furono uccisi, altri si rifugiarono presso l’ imperatore persiano Cosroe, che li accolse e ne protesse l’ opera. Più tardi, contro i loro eredi si abbatterà ancora una volta la persecuzione del clero bizantino: in particolare nei confronti di Gemisto Pletone, con grave danno dei suoi scritti e della «setta» di Mistrà.
E però saranno proprio questi uomini che conquisteranno la mente di umanisti come Ficino e costituiranno l’ alimento dell’ Umanesimo e della Rinascita. Insomma quel filo conduttore di alternativa filosofica all’ imbarbarimento cristiano non si è mai smarrito. Per converso la parabola del cristianesimo come potenza politica è stata segnata dall’ accoglimento del peggio dell’ eredità pagana: la superstizione. «I vescovi più rispettabili – scrive Gibbon con la consueta serenità e finezza – si erano persuasi che il popolo ignorante avrebbe più volentieri rinunziato al paganesimo, se avesse trovato qualche somiglianza, o qualche compenso, nel seno del cristianesimo» (cap. 28). E così accadde. Distanti 800 anni l’ uno dall’ altro l’ uccisione di Socrate e il massacro di Ipazia sono frutto della stessa «infamia», per usare l’ espressione cara a Voltaire. Écrasez l’ infâme, resta il solo imperativo, più che mai attuale.
Fonte – Il Corriere della Sera, 11 aprile 2010
2 Comments
Giovangualberto Ceri
04/07/2010Gentilissima Signora,
nel film “AGORA'” su IPAZIA – JOHN TOLAND, Ipazia, Editrice Clinamen, Firenze, 2010 – mancano assolutamente i riferimenti ASTROLOGICI: ed è gravissimo!!! Le scuole neoplatoniche dei primi secoli non erano guidate in tale modo. Il film è stato comunque culturalmente molto utile, se pur, da un punto di vista artistico, criticabile. Comunque ne andrebbero messi in scena altri riguardanti argomenti simili. L’ utilità del film avrebbe potuto essere evidenziata anche da MARINO discepolo di PROCLO, poiché egli racconta che Proclo stesso (Marini Vita Procli, 30: cfr. PROCLUS, Théologie platonicienne, livre I, par H.D. Saffrey et L.G. Westerink, Paris, Les Belles Lettres, 1968, pp. XXII – XXIII), per aver custodito devotamente in casa sua la statua della dea Atena, dal momento in cui i cristiani la buttarono giù dal Partenone per metterci il Crocifisso, avrebbe poi rischiato di fare la stessa fine di Ipazia se non fosse riuscito a fuggire. Così erano diventate molte sette cristiane una volta finite le prime comunità apostoliche, cioè seguaci della dottrina della DIDACHE’ che dava ai PROFETI, quindi anche se laici, pari dignità sacerdotale che ai VESCOVI: problema al quanto imbarazzante che si cercò ben preso di eliminare e quindi ancor prima dell’eliminazione della comunità dei DONATISTI. Alcuni interventi all’epoca del CONCILIO VATICANO II sembrarono però indicare di dover tornare a queste primissime comunità in cui la grazia di profezia, legata anche all’esercizio di una scienza (per Dante si tratta della scienza della pagana FILOSOFIA di Pitagora e, similmente, della cristiana MORALE FILOSOFIA del nono cielo), sembrava riproponibile. A quei tempi (1963-1976) MONS. ENRICO BARTOLETTI, l’ “alter ego” di Paolo VI e, in certo qual senso il maestro di monsignor ALBINO LUCIANI e già favorevole ad accettare una legge dello Stato a favore del divorzio coniugale, a me parve seguire anche questa linea aperta ad un nuovo profetismo e quindi alla sacralità del vero Filosofo laico, o scrittore, o autentico poeta ed artista, specialmente poi se martire, come Ipazia. Egli avrebbe certamente elogiato Ipazia quale esempio di comportamento per un cristiano.
Fino a Dante, e perciò anche nelle antiche scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria, non esistevano comunque semplici lezioni astronomiche senza riferimenti all’astrologia tolemaica e, conseguentemente, senza l’identificazione, quanto meno, dei quattro umori, UMIDO, CALDO – fecondi e attivi e perciò nobili e montanti- , e SECCO e FREDDO – distruttivi e passivi e perciò volgari e volgenti – (Tetrabiblos, I, V, 1-2; I, VIII, 1-2). Anche Dante incentra, sia il viaggio della Commedia, che gli altri episodi simbolici della Vita Nuova e del Convivio sui quattro umori esercitati dagli astri durante il loro moto (rivoluzioni sinodiche, o aspetti dei pianeti in rapporto col Sole) e peculiarmente sugli umori umido e caldo in quanto, appunto, nobili e montanti (Convivio, IV, XXIII). Vedere il Link: http://www.youtube.com/watch?v=wV4vEG15yjA). Che gli storici e i letterati non ne parlino, e non vogliano prenderne atto, non significa affatto che la realtà non fosse allora immaginata nel modo da me evidenziato, cioè tutta sussumibile sotto questi quattro umori che, per questo, erano ritenuti universali (Cfr. Par., XXXIII, 7-9). Le opere di Dante (Commedia, Vita Nuova e Convivio) sono tutte immerse nell’ASTROLOGIA pur trovandovi gli esegeti, ma solo i più esigenti, solo delle note astronomiche. Il fenomeno sfiora il ridicolo ma così è!
Il problema della teorizzazione del movimento ELLITTICO dei pianeti messo in evidenza da Ipazia, a migliore giustificazione delle loro apparenze in cielo, è importante, ricorda la passione per la ricerca dei neoplatonici, ma la loro passione per la ricerca stessa andava ben oltre questo semplice aspetto astronomico-gravitazionale a noi tanto caro. Essi erano ancor più impegnati nel problema della spiritualizzazione dell’anima: problema i cui tentativi di risoluzione venivano ugualmente sottoposti ad osservazione scientifica, empirica, sia pure sotto il profilo della soggettività, cioè, diremmo noi, di una “scienza universale dell’anima in generale” (E. HUSSERL, La Crisi delle scienze europee, § 69).
I pianeti ontologicamente influenti erano inoltre i primi cinque in base a CLAUDIO TOLOMEO, ma anche a Dante, e andavano gerarchicamente dalla Luna a Marte (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte). La Luna si immaginava, non a caso, assai vicino alla Terra e alla sua fertilità e l’angelo signore di questo primo e più basso cielo, o pianeta, non per caso è GABRIELE. Le gerarchie angeliche della cultura cristiana sono ovviamente parto della mentalità di rimonta verso l’Uno, verso il Bene, del mondo platonico e neoplatonico. Non per caso furono meglio messe a fuoco da DIONIGI L’AREOPAGITA (Atene, I secolo d.C.), come testimonia anche Dante (Par., XXVIII, 130-132) e perciò tali gerarchie già indicando l’angelo Gabriele quale signore del cielo della Luna la quale, per la maggior parte della gente, così scrive Tolomeo, attraverso il suo novilunio (umido) e plenilunio (caldo), influenza positivamente la fecondazione degli animali e la semina delle piante (Tetrabiblos, I, III, 14). Questo, per senso, era il mondo neoplatonico.
Ritornando alla neoplatonica Ipazia, sulla Terra esisterebbe, per la Tradizione esoterica, un problema riguardante SATANA: cioè la non volontà di resurrezione quale conseguenza indiretta degli influssi di incarnazione esercitati dalla Luna sulla Terra.
Al contrario Marte, essendo assai più vicino al più alto dei cieli, ed essendo lontanissimo dalla Terra, darebbe luogo al problema riguardante LUCIFERO: cioè la non volontà di incarnazione.
Il cielo della Luna già presiede alla GRAMMATICA che permette all’essere umano di iniziare ad incarnarsi nella cultura. Il cielo di Marte presiede invece alla MUSICA che permette all’essere umano di affrontare la morte con convinzione, cioè col superamento di essa stessa: Marte-Musica-Martirio-Morte. Nella sua piena completezza Marte inclina dunque al versamento del sangue per la verità, mentre la Luna inclina al poter fare incarnare Colui che sarà all’altezza di questo compito, di questa verità-realtà ontologico-vissuta (Convivio, II, XIII, 8; Commedia, Par., XIV, 103-108). Lo ripeto, questo, per senso, era il mondo neoplatonico da cui Dante fu fortemente influenzato, forse seguendo anche l’arabo Avicenna, o l’ebreo Abramo Ibn Ezra (Avenare).
Ontologicamente, per arrivare a tanto, bisognerà però che prima l’anima discenda dagli influssi dei cieli superiori alla Luna e che si estendono fino al cielo di Marte, per così incarnarsi sulla Terra. Le aspirazioni dell’anima dovranno vincere la luciferina e simbolica non volontà di incarnazione presente nei cieli superiori: ed è qui che essa può essere aiutata dagli influssi della Luna andando però incontro poi, una volta incarnatasi sulla Terra, alla satanica non volontà di resurrezione. Ma a risolvere questo ulteriore problema interverrà la potenza di Cristo.
LUCIFERO e SATANA appaiono dunque anche come due campi di forza opposti e necessari, quindi scientificamente utili, alla maturazione dell’uomo completo qualora riescano cristicamente a crocifiggersi l’uno sull’altro.
Quando allora il nostro allievo dedica ad Ipazia, nell’agorà, la sua musica è simigliante al cielo di Marte e sottostà perciò al problema della non volontà di incarnazione, ovviamente. Ipazia l’ha capito, e se l’ha capito, quale docente della Scuola, cosa vorrà ancora insegnargli? Potremmo anche ipotizzare che Ipazia non sia mai esistita, però, essendo stata costruita la sua storia, essa stessa dimostrerebbe, a più forte ragione, che il problema di questi delitti, o assassini, o martirizzazioni, esisteva.
Quando dunque Ipazia contraccambia, nella storia, didatticamente l’omaggio fattole dal suo allievo, regalandogli il suo fazzoletto macchiato del suo mestruo, intanto il simbolo è ovviamente quello del cielo della Luna, mentre il consiglio non potrà essere che quello di doversi anche lui meglio incarnare. Dunque Ipazia, seguendo i significati astrologici, per il suo regalo legato alla Luna, consiglierebbe all’allievo di incarnarsi meglio, più completamente, oltre che di continuare, ovviamente, a dedicarsi alla musica. E siamo qui all’inizio e alla fine (Luna-Marte) del tragitto ontologico dell’essere umano in base agli influssi dei pianeti.
Anche Gesù Cristo si incarnò attraverso gli Uffici del signore del cielo della Luna: l’ANGELO Gabriele, che sarebbe perciò un grave errore chiamare ARCANGELO, come invece si legge anche in alcuni testi promossi dalla Conferenza Episcopale Italiana.
CHI HA PAURA DEL CORPO DELL’UOMO? CHI NON AMA IL CLASSICISMO.
La nostra “Regina Benedetta Virgo Maria” (Vita Nuova, XXVIII, 1) rimase incinta di Gesù Cristo proprio a quello che avrebbe dovuto essere il suo primo MESTRUO. Essa rimase infatti incinta di Gesù, seguendo la Tradizione, all’età di tredici anni (Convivio, II, V, 4) per l’intervento del “grande legato missus a Deo”, l’angelo Gabriele signore del cielo della Luna che, non solo in quell’occasione, poteva guardare negli occhi la nostra Regina innamorato sì da parer di foco (Par., XXXII, 103-105). Un bel privilegio. Infatti così recita la liturgia della Santa Notte della Natività: “ex utero ante Luciferum genui te”. Il generato da quell’utero, Gesù Cristo, da un punto di vista simbolico riguardante l’ontologia vissuta, sarà poi messo da Dante, ovviamente, nel cielo di Marte e della Musica: “… ché ‘n quella croce lampeggiava Cristo” (Par., XIV, 104). Desta perciò sorpresa che alcuni commentatori, constatato che Ipazia ha voluto contraccambiare l’attenzione musicale a lei rivolta regalando il suo mestruo, abbiano potuto concludere che essa stessa potesse essere una prostituta, o accostata a un qualche genere di “ESCORT”.
È perciò banale affermare che l’EUROPA HA RADICI GIUDAICO-CRISTIANE. Meglio sarebbe riconoscere, con Dante, che essa ha RADICI PAGANO-CLASSICO-CRISTIANE: il giudaismo essendo implicito al cristianesimo, e la cultura egiziana e caldaica implicita al paganesimo classico. L’Occidentalità del pensiero, essenzialmente, è tutta qui racchiusa.
I due campi di forza della NON VOLONTA’ (non volontà di incarnazione per chi si trova in cielo, e a più forte ragione in quello della musica; e non volontà di resurrezione per chi si trova sulla Terra in conseguenza degli influssi della Luna), per tentazione reciproca danno luogo, ontologicamente, alla Croce di Cristo che, se intesa come simbolo di scienza, diventa e simboleggia la contemporanea volontà di incarnazione e di resurrezione. Questa è la Croce di Cristo. Cristo, ovvero l’Uomo che insegna la strada della deità, deve diventare infatti potente di incarnazione e di resurrezione: da qui, appunto, la CROCE DI CRISTO come simbolo, ormai trascurato, di una scienza della soggettività in generale e dell’evoluzione della persona. Questa traiettoria esistenziale risulta anche dagli insegnamenti, ancorati alla Tradizione, del Filosofo e romanziere francese RAYMOND ABELLIO (cfr. R. ABELLIO, LA STRUCTURE ABSOLUE, Essai de phénoménologie génétique, coll. Bibliothèque des Idées, Gallimard, Paris, 1965, pp. 23, 244, 333-353, 358, 440, 450-462, 469-475, 519. A pagina 349 egli così scrive, p.e., : “Il cielo è il germe di una terra ideale, ma esso, in quanto luciferino, dovrà incarnarsi sulla Terra. Non può restare germe. Il campo simbolico di forza luciferino che sta in cielo e quello satanico che viviamo qui sulla terra rendendola un’Inferno, non si conoscono però come tali e, da qui, l’impotenza a crocifiggersi l’uno sull’altro mancando loro, momentaneamente, una sufficiente reciproca tentazione”, p.349).
Il contraccambio del regalo, MUSICA CONTRO MESTRUO, fatto da IPAZIA punterebbe dunque, considerandolo sotto questo profilo esoterico-scientifico, alla maturazione del suo allievo e, più in generale, alla realizzazione futura di una terra ideale: la pagana NOVELLA TROIA promessa da Giove a sua figlia Venere mattutina e perciò UMIDA E CALDA (VIRGILIO, Eneide, libro primo, 254-260; Annibal Caro, 416-421) e, ugualmente, alla realizzazione della cristiana NUOVA GERUSALEMME TERRESTRE.
Ipazia, sotto il profilo scientifico-spirituale, cioè della ricerca della verità è, paradossalmente, già più cristiana dei cristiani e del suo allievo, e dunque non per caso è lei a versare il sangue per la verità, ad essere martire: Marte-Musica-Martirio-Morte e quindi assai vicina a Cristo crocifisso. Scrive Dante: “In forma dunque di candida rosa / mi si mostrava la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa;” (Par., XXXI, 1-3).
IPAZIA “ESCORT”.
Ipazia per alcuni sarebbe stata una “ESCORT”? In altre parole una donna pronta a ripetere quasi a memoria le lezioni di importanti docenti di Teologia neoplatonica?
In questo nostro frangente cattolico-culturale italiano apparentare Ipazia ad una “escort” potrebbe confondere però le idee, il senso che effettivamente ebbe la sua vita, che poi è quello che dovrebbe contare. Essa fu sacra.
Essere un docente universitario di alto lignaggio, oppure famoso, indubbiamente è una cosa commendevole, però essere una martire è cosa ben diversa, assai più difficile e moralmente ben più impegnativa, per cui sarebbe d’obbligo per tutti dire: “GIÙ IL CAPPELLO!” Il sangue versato, è sangue versato, e in ogni circostanza. I discorsi ben altra cosa e assai più facile e debole. Il fatto che un debole possa criticare, o fare impallidire, un forte a me intimamente dispiace.
Ipazia non fu disposta a farsi adescare da credenze maggiormente di moda, o meglio remunerate, e quindi Essa fu, ontologicamente (ontologia vissuta) una vera donna di Filosofia, cioè all’altezza di dare buoni consigli ad una Civiltà in fieri. Per me il cristianesimo è superiore al paganesimo classico, però bisogna vedere di quale cristianesimo parliamo. A qualificare l’essere umano non valgono solo i discorsi e i libri pubblicati con successo quanto, soprattutto, il comportamento. Il letterato mai potrà essere esistenzialmente superiore al martire. All’ intellettuale, a volte, piacerebbe, ma non è così, non è giusto. L’intellettuale appartiene al cielo di Mercurio (dialettica) e, semmai, a quello del Sole (ampliamento di coscienza), il martire, invece, al superiore Marte. Inoltre i martiri, anche se pagani, per me cristiano, seguace di Dante, hanno gli stessi poteri dei nostri santi martiri, per cui, dilà, potrebbero anche offendersene: e, nel mondo-dilà, pagano e cristiano, la stima nostra di viventi verso di loro sembra contare, avere un peso.
E’ interessante ricordare come Dante MALEDICA nel Convivio quei cristiani che non vedono nella paganità classica la spinta necessaria per diventare autentici cristiani. Egli sta dunque dalla parte di Ipazia mentre così scrive: “Maledetti siate voi (cristiani traviati), e la vostra presunzione, e chi a voi crede” (Convivio, IV, V, 9).
Non si può studiare il medioevo e la classicità, come anche gli egizi e i caldei (Tetrabiblos, I, XXI, 1; I, XXI, 8; I, II, 15; I, III, 18; II, XI, 3), solo riempiendosi la mente di avvenimenti, di episodi storici e di cronaca e di date poiché tale indirizzo è parziale, intimamente deludente, e infine finisce per impoverire lo studente e la cultura. Per studiare con autentico profitto culturale le epoche passate bisognerà invece cercare prima di tutto di impadronirsi delle scienze di allora, delle epoche di cui intendiamo riferire poiché è di esse stesse che ha vissuto l’umanità di cui vogliamo riferire. Per il progresso esistenziale della nostra civiltà è interessante il vissuto di queste epoche a noi lontane e non l’esibizione mnemonica di dati spesso manualistici. Il compito è difficile, faticosissimo e rischioso ma possibile, comunque ineludibile.
Scriveva EUGENIO GARIN che l’università delle Scienze Umane, sotto questo profilo, fa pena. Io ho condiviso il suo sentimento e ho cercato di porre alcuni qualificanti rimedi con lunghi, continuativi e faticosissimi studi. Il risultato didattico è però rimasto inascoltato. Oggi mi domando: Perché?
Con un saluto.
Firenze, 04 luglio 2010,
Giovangualberto Ceri
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Laura
18/09/2010Eila’ stupendo questo blog. :P:P:P